In Memoria - Fidca

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Elaborati di Christian Tarantino

IN MEMORIA DI OGNUNO…
Ai Combattenti Italiani di ieri, insigni Eroi della “Grande Guerra”.
Ragazzi che, nel fiore degli anni, si immolarono alla Patria.

a cura di Christian Tarantino


“Finché fia santo e lacrimato il sangue per la Patria versato…”
(Ugo Foscolo)

Nell’impetuoso vento della Storia, riecheggia strozzata una voce, un grido gelido e soffocato che giunge fino a noi e subito ci oltrepassa, una locuzione che porta con sé una responsabilità e ci richiama al dovere, almeno così dovrebbe essere, un monito, una speranza, un sospiro dal passato: “NON DIMENTICATECI!”. E cosa rispondiamo, noi, gente del futuro a chi un futuro lo ha sacrificato per donarci la pace, l’unità, la libertà… Senza indugio: “NON DIMENTICHIAMO!”. In un mondo ormai privo di valori morali ad essi vada la nostra perenne riconoscenza.
Sì, è vero… la guerra tira fuori quanto di peggio c’è nell’uomo. Terra, sangue, sudore formano l’impasto della morte. Solo una mente ottenebrata dal male e accecata dalla crudeltà può non inorridirne. Non è possibile cantare e gioire quando gli occhi non possono fissare altro che la nuda terra, quasi presentimento della morte cruda ed imminente. Anche le mani sono più libere. Impotenti, rimane loro solamente la possibilità di significare un’implorazione disperata verso il cielo. Ce lo testimoniano le parole di un milite sconosciuto, scolpite nella galleria del Castelletto delle Tofane, sul fronte dolomitico:

“Tutti avevano la faccia del Cristo
nella livida aureola dell’elmetto.
Tutti portavano l’insegna del supplizio
nella croce della baionetta.
E nelle tasche il pane dell’Ultima Cena
e nella gola il pianto dell’ultimo addio”.

Allora, un interrogativo insistente occupa, arrovella e ferisce l’intelletto umano: “Perché l’innocente deve soffrire? Perché l’innocente deve morire? Perché tanti caduti sui campi di battaglia? Perché tante ripercussioni nelle dimore quotidiane? Perché tanti cristi di questo mondo devono subire le pene dell’inferno? Quelli del morto in battaglia sono occhi di paura, di terrore. Occhi che implorano un senso, una giustificazione. Perché l’ingiustizia? Quando spunterà l’alba di un giorno in cui regni la pace? La tragedia del dolore non risparmia nessuno, diviene collettiva. Taluni non hanno cuore per amare, non hanno orecchi per sentire l’urlo straziante dei sofferenti. Ad alcuni non resteranno più gli occhi per vedere. Ad altri non rimarrano che stampelle per camminare. Grucce che diventeranno compagne inseparabili dell’esistenza. Vite segnate per sempre dai giorni dell’odio e della crudeltà senza limiti. Quando verranno i giorni della pace?”. Istinti di affetto si mescolano misteriosamente alle atrocità della guerra. Anche in mezzo ai cannoni sembra sopravvivere un’esigenza di serenità e la voglia di riabbracciare l’innocenza perduta. Un piccolo zaino racchiude tutte le contraddizioni in cui si agitano gli uomini di questo mondo quando lottano tra loro. Un desiderio irrefrenabile di vita riaffiora dal peso delle fatiche quotidiane. La speranza non è forse l’ultima a morire?

Pur serbando tutto questo nell’anima e nel cuore, gli Italiani rifiutarono di piegarsi ad un’ipoteca arbitraria sul misterioso futuro e combatterono fino allo stremo delle forze per realizzare la piena e perfetta Unità che oggi dopo un secolo di Storia è ancora oggetto di accese contese e di intestine lotte.
E noi, “NON DIMENTICHIAMO”…

  • Le loro giovani vite spezzate.
  • Il loro dolore nel fango delle trincee.
  • Le ansie, i sacrifici e le lacrime dei loro cari.
  • Quel grido strozzato dal dolore mentre cadevano: “Italia!”.
  • L’orrore delle guerre come anatema del genere umano.
I prodi “Ragazzi del ’99… I Diciottenni che seppero morire prima ancora di imparare a vivere”. A Bassano del Grappa, inaugurato nel 1974 a ricordo di una generazione che nasceva, mentre l’Ottocento finiva, nel Parco loro intitolato, un cippo marmoreo recita:

AI GIOVANI D’ITALIA RESTI VIVO IL RICORDO DEI
“RAGAZZI DEL ‘99”
CHE DICIOTTENNI SUL GRAPPA E SUL PIAVE
NELLA GUERRA 1915-1918
INSIEME AI PIÙ ANZIANI COMBATTERONO
PERCHÉ LA PATRIA FOSSE SALVA E VITTORIOSA

Fu l’ultima leva di 265 mila italiani chiamati a “resistere, resistere, resistere!” sul fiume Piave, come esortava Vittorio Emanuele Orlando, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia.

Ci pare quasi di udirli, di distinguerne i lamenti, le inquietudini, l’amaro “Addio” al mondo e al futuro.

24 ottobre 1917
Caro futuro[1],
scrivo da “qua”, sono un ragazzo del ’99.
Non sono del vostro secolo, ma per intenderci degli sgoccioli del diciannovesimo di secolo.
Il mio “qua” è difficile da spiegare, impossibile da dimenticare.
È un posto che non ha confini, con mille padroni, ma io obbedisco solo a me stesso o alla fame e alla sete.
Non sono maggiorenne ma abile alla guerra, dicono loro.
Non ho avuto nemmeno il tempo di fare l’amore per la prima volta, mi hanno lanciato così velocemente in questo “qua”, senza preavviso, senza chiedere, senza la minima possibilità di scelta. Che ad averlo saputo prima, magari avrei chiesto alla mia lei di fare l’amore, senza passare per i baci. Non per mancanza di rispetto, ma per amore.
Siamo tanti, tantissimi. Non ricordo i nomi di nessuno, alcuni nemmeno li capisco.
Quest’Italia di cui tutti parlano è così diversa, nei modi, nei dialetti, nei luoghi.
Chi aveva mai visto le montagne? Chi aveva mai parlato di un fiume di nome Isonzo?
Abituato alla terra, ora mi sento così impacciato con questi “così”: armi. Alcuni, i più fortunati, hanno una Lewis, una mitragliatrice di dodici chili, io avevo una Beretta M15. Troppo leggera per chi come me era abituato ad una zappa ed una terra asciutta. Ogni colpo un fremito di fatica, poi diviene terrore. Premo il grilletto con gli occhi chiusi e le orecchie sorde, senza pensare e senza capire per chi o contro di chi sparo.
La terra lo sapevo che era in parte per me e quando mi domandavo quanto sarebbe durato, mi tornavano in mente le parole di mio padre: “Ergastulum”.
Fissava la terra con la zappa in mano e diceva “ergastulum” ogni volta che gli chiedevo quanto ancora avremmo dovuto zappare.
Solo un giorno mi spiegò cosa intendeva. Era un lavoro nei campi; forzato. Nella Roma antica era destinato a chi veniva punito, la loro condanna era di lavorare a vita senza possibilità di uscirne.
Anche “qua” potrebbe essere un “ergastulum”. E ogni volta che mi domandavo quando sarebbe finito, mi tornavano ancora in mente le parole di mio padre: “L’ergastulum non scade, più vivi, più ci resti!”.
Siamo vestiti di paura e armature di fortuna, le orecchie tremano come le foglie d’autunno e io non posso non pensare di morire senza fare l’amore.
Avevo sempre creduto che fossi veloce come il vento, ma non avevo mai conosciuto un proiettile. Spero di non doverlo sfidare mai.
Mangiamo pane e tempesta e nei momenti in cui parliamo e riusciamo a capirci sogniamo che tutto finisca il prima possibile, anche perché tutto questo ancora non è ben chiaro. Chi ci comanda dice che è necessario, che dobbiamo essere orgogliosi, che dobbiamo farlo per l’Italia, ma ora ci sembra più un’entità astratta che reale.
Tutti lottiamo principalmente contro la paura, anche chi porta le stellette sulle spalle.
Ho scritto decine di lettere ai miei genitori senza sapere se siano arrivate, solo mia madre sa leggere, è lei che mi ha insegnato a farlo insieme a scrivere.
Scrivendo ci si dimentica persino della fame e la distanza verso casa pare accorciarsi.
Io credo che in questo momento stiamo perdendo. Sto smettendo di scrivere e comincio ad avvertire la fame e la sete.

5 novembre 1918
Carissimo futuro[2],
sono sempre “qua”, ho un anno in più e i miei occhi hanno visto più di quanto sanno contenere. Avevo perduto fogli e penna, avevo ceduto alla fame e alla sete.
Ho imparato a maneggiare le parole: guerra, armi e ricordi.
Oggi è un grande giorno. Abbiamo ricacciato lo straniero, il fiume Piave, nostro alleato mormorava a nostro favore. Almeno così ci sembrava. Abbiamo fame e sete, ma la gioia di essere eroi non ce la fa sentire.
Ho imparato a maneggiare anche questa parola: eroe.
Fino a quel momento non mi era servita, non ne avevo sentito la necessità. Ora invece me la coccolo in gola e la stringo fra le mani.
Chissà se mia madre avrà letto le mie lettere prima a sé stessa e poi agli altri della famiglia, magari cambiando la verità. Nessuna madre dice che il proprio figlio sta male e la loro forza è anche questa, considerarti eroe ancor prima che tu ti ci senta e senza nemmeno conoscere la parola.
Anche la parola Italia comincia a sembrare qualcosa di concreto, ora conosco un sacco di fiumi, di monti, di uomini.
I più ottimisti tra noi dicono che è quasi finita ed io penso che se tornerò dovrò dire a mio padre che “l’ergastulum” può finire, ma la paura, quella, non vuole andarsene.
Ne ho conosciuti molti che ora non conosco più, sono rimasti nei miei occhi, alcuni tra le mie braccia. Erano padri, alcuni figli, altri entrambi.
Molti non avevano mai fatto l’amore. Anche per questo non so quanto sia giusto ridere ed essere felice, mi sono così abituato a tutto questo che non riconosco più il momento di essere felice o essere grato.
Il pensiero vola per forza di cose a casa, come sarò quando tornerò, se tornerò.
Riuscirò a riconoscere la felicità?
Riuscirò a dormire senza preoccuparmi o sentirmi in pericolo?
Alcuni miei compagni mi chiedono di scrivere al posto loro e lo faccio volentieri. Non solo scrivo, elaboro i loro pensieri e li riporto a modo mio, tanto non sanno leggere. Poi, quando chiedo loro di mettere l’indirizzo rimane tutto sospeso, un silenzio che sa di casa. Alcuni non lo ricordano e allora le affidiamo al fiume, quel fiume che mormora e che tanto ci è stato vicino. Magari lui sa, di sicuro più di noi. E allora lanciamo fogli sbiaditi sussurrando i nomi dei nostri cari, affidandogli i nostri pensieri.
Mangiamo sempre poco, spesso riusciamo a trovare qualche bottiglia di vino che insieme al fuoco fa la guardia con noi.
Siamo uomini di vent’anni, eroi mutilati… non so dire se ne sia valsa la pena, se sia servito a qualcosa, non so nemmeno bene il perché.
Caro futuro, non farlo più. Caro futuro aspettami. Caro futuro, usa la Storia per ricordare e non ricadere in questo errore.
Io credo che per il momento stiamo vincendo. Ma che vuol dire vincere ad un gioco senza regole, logica e terrore?
Sto smettendo di scrivere e corro verso casa, senza fame e senza sete.


I Ragazzi del ’99 furono, dunque, protagonisti di tre battaglie decisive, che hanno capovolto le sorti del conflitto: tutte e tre battaglie vinte. Le soprannominate “battaglie d’arresto” a cavallo fra il Trentino e il Veneto il 10 novembre 1917. Quella del “solstizio” a metà giugno del 1918. E la “Battaglia di Vittorio Veneto” fra il 24 ottobre e il 3 novembre 1918. Come scrisse il Generale Diaz vedendoli in azione: “io voglio che l’esercito sappia che i nostri giovani fratelli della classe 1899 hanno mostrato d’essere degni del retaggio di gloria che su essi discende”. A ben undici di questi soldati-ragazzini, originari di Roma, Milano, Messina, Ariano Irpino di Avellino, Riva di Trento, Firenze, Cagli di Pesaro, Longobucco di Cosenza, Novara e Lucca, etc., ovvero figli di un’Italia da quel momento libera e unita dal Brennero a Lampedusa, furono assegnate Medaglie d’Oro al Valore.

Sembra quasi una leggenda oggi ad udirla nelle Commemorazioni della Prima Guerra Mondiale 2014/2018, come rievoca il celebre inno ai Caduti: “il Piave mormorò: non passa lo straniero!”. Eppure anche questa canzone si deve a un giovane fante, Luigi Saccaro. A lui si rivolse, visitando i soldati impegnati sul Piave, il Re Vittorio Emanuele III. Gli chiese come vedesse la temibile avanzata dell’Esercito Austro-Ungarico, dopo la già vissuta e drammatica disfatta di Caporetto a fine ottobre del 1917. Il soldato semplice, Saccaro Luigi, rispose: “Fin qui arriverà il nemico. Ma da qui non si passa”. Parole che sono diventate melodia che riecheggia in tutte le cerimonie di Stato.

Ma la vera “Leggenda del Piave” fu quella dei ragazzi “abili e arruolati” in tutta fretta, perché bisognava rinforzare l’ultima linea prima che fosse troppo tardi. “Oggi dall’Adige all’Adriatico le nostre armate passano all’attacco contro gli italiani”, comunicavano, trionfanti, i bollettini del Comando Austro-Ungarico. E i soldati tedeschi sfidavano gli Italiani con sicumera: Andare Bassano bere caffè”. Proprio in quelle stesse e tragiche ore sul muro di una casetta semi-distrutta e abbandonata una mano ignota scriveva la struggente “risposta” italiana: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”. Era l’ora della verità per tutti. E l’arrivo di questi giovani, molti imberbi, che cantavano con lo spirito innocente e temerario tipico dell’età e dell’epoca di sacrifici, fu un’iniezione di coraggio e di tenerezza per i veterani, che erano stanchi e demoralizzati da tre anni di conflitto sanguinoso, dal freddo, dalle malattie, dalla fame. E, soprattutto, dalla nostalgia di casa.

L’ultimo “Ragazzo del ‘99” è scomparso a 107 anni nel 2007. Si chiamava Giovanni Antonio Carta, Caporal Maggiore di Fanteria della “Brigata Sassari” e Cavaliere di Vittorio Veneto. [3]
Le sanguinose “Battaglie dell’Isonzo”, ben 12, combattute lungo la frontiera orientale Italo-Austriaca, nei pressi del fiume Isonzo. E dove le perdite in termini di vite umane furono davvero ingenti. La linea del basso Isonzo era assicurata dall’altipiano carsico, difeso alle estremità occidentali ed orientali rispettivamente dal Monte San Michele e dal Monte Ermada.
E fu proprio nella Trincea sul Carso, in 1ª linea, alle pendici del San Michele, in località Bosco Lancia, a circa 6 Km a nord est di Redipuglia che, il giovane soldato QUARTA Crocifisso di Oronzo[1] (nato a Monteroni di Lecce il 17-10-1890 e caduto il 29-09-1915), già effettivo al 140° Reggimento Fanteria, 7ª Compagnia della “Brigata Bari”, perse la vita, appena 25enne, dopo essere stato ferito in combattimento. La sua prece funebre era così composta:

FIGLIO E FRATELLO ESEMPLARE
CHE, MENTRE PIÙ BELLA GLI ARRIDEVA GIOVINEZZA,
E DOLCE NODO DI PACE
UN SANTO AMORE GLI PREPARAVA,
TUTTO IMMOLANDO ALLA PATRIA
CADDE VITTIMA DELL’IRA NEMICA
LASCIANDO AI PARENTI INCONSOLABILI
CON LA SPERANZA DI RIVEDERLO IN CIELO
L’ESEMPIO MEMORANDO
DI CHI SA VIVERE E MORIRE
PER I SUBLIMI IDEALI
DI DIO, DELLA PATRIA, DELLA FAMIGLIA

Il “Milite Ignoto” (tumulato il 4 novembre 1921 nel sacello posto sull’Altare della Patria a Roma), ricevette la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
DEGNO FIGLIO DI UNA STIRPE PRODE
E DI UNA MILLENARIA CIVILTÀ
RESISTETTE INFLESSIBILE
NELLE TRINCEE CONTESE
PRODIGO IL SUO CORAGGIO
NELLE PIÙ CRUENTE BATTAGLIE
E CADDE COMBATTENDO
SENZ’ALTRO PREMIO SPERARE
CHE LA VITTORIA E LA GRANDEZZA
DELLA PATRIA

24 MAGGIO 1915 – 4 NOVEMBRE 1918
Il carro ferroviario con la salma in arrivo alla stazione Termini (Roma), proveniente da Aquileia

Gli Alpini Mitraglieri Fiat di stanza sul Monte Bianco, sul Grappa, etc., tra il fuoco e il gelo sulla “grande muraglia naturale”[5] costituita dalle montagne, un “balcone scolpito su nevi eterne”, ove si combatteva la cosiddetta “Guerra Bianca”, un fronte che non si misura in larghezza, bensì in altezza. E, ognuno dei Combattenti Italiani, di qualsiasi reparto o arma di appartenenza, dislocati sui tutti i fronti.
Nel loro Inno [6] si legge: …Nel nostro cor si fondano l’orgoglio di soldato, /d’un caro viso amato/ i baci e il lagrimar. /Avrem sempre solo un motto:/«Onore e gloria!»./Già col sangue ci sacrammo/ a la Vittoria./…Coi baci saprem tergere/di nostre madri il pianto/serbando in cor rimpianto/per Quei che non son più./Liberi cittadini,/fieri de la Vittoria,/avrem sempre solo un motto:/«Onore e gloria!».
E noi, “NON DIMENTICHIAMO” …
Di rendere onore ai monumenti di ogni paese che ci ricordano quella “immane tragedia” che ha coronato il nostro bene più grande: l’Unità Nazionale. I loro corpi riposano semplicemente dove sono caduti e molti sono stati traslati dalle trincee al Sacrario Militare di Redipuglia (Gorizia), dedicato alla memoria di oltre 100.000 Soldati Italiani Caduti.
Sulla scia del loro retaggio, che ci si augura sempre protetto, l’Europa che lo celebra, un secolo dopo, è l’Europa che, per forza di cose, ha cancellato l’idea stessa della guerra che, per secoli, ha sconvolto la vita e le vicende delle sue popolazioni. Non più “nemici” alla frontiera, ma solo tanti “sogni” da condividere. “Perenne sia come il tempo l’amor di Patria!”. Sia questo l’auspicio che permetta di tramandare Valori e Memoria.

Onore ai Caduti d’Italia!
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[1] Cfr. Quaderni Monaldeschi; Al sacrificio dei nostri Eroi:“I Ragazzi del ’99”. Lettere immaginarie di Andrea Ricci.
[2] Cfr. Quaderni Monaldeschi; Al sacrificio dei nostri Eroi: “I Ragazzi del ’99”. Lettere immaginarie di Andrea Ricci.
[3] Cfr. Guiglia Federico, La leggenda dei Ragazzi del ’99, Il Messaggero, 2014
[4] Albo d’Oro dei Caduti 1ª Guerra Mondiale, pag. 317
[5] Cfr. Paolo Rumiz
[6] 120ª Compagnia Mitragliatrici. Mod.907 F. (15 agosto 1917).
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