L'Inno Nazionale - Fidca

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L’INNO D'ITALIA
(di Goffredo Mameli e Michele Novaro)

Eseguito per intero, l’inno di Mameli dura un gran tempo: esattamente 7 minuti primi e 45 secondi. L’autore lo scrisse a vent’anni. La difesa della Repubblica Romana gli costò la vita. Aveva ventidue anni. Morì da eroe, e forse mai eroe venne risarcito meglio. Le sei strofe furono musicate da Michele Novaro. Gli italiani conoscono appena la prima. I calciatori della nazionale non conoscono forse neanche quella, comunque molti rifiutano di mandarla a memoria, intenti come sono, probabilmente, a far cantare cartamoneta, nel senso che se mettono mano sul petto é per difendere il portafogli, non per ascoltare un palpito di cuore. Comunque sia, questi che seguono sono i testi dell’Inno, peraltro non facilmente rintracciabili.


FRATELLI D’ITALIA
(versione breve attuale)



FRATELLI D’ITALIA
(versione integrale)



I N N O

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta; (1)
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa. (2)
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma; (3)
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte! (4)
Siam pronti alla morte; (5)
Italia chiamò.
Noi siamo da secoli (6)
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme;
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci;
l'unione e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore. (7)
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio, (8)
chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Dall'Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano; (9)
ogn'uom di Ferruccio (10)
ha il core e la mano;
i bimbi d'Italia
si chiaman Balilla; (11)
il suon d'ogni squilla
i Vespri suonò. (12)
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
le spade vendute; (13)
già l'Aquila d'Austria (14)
le penne ha perdute.
il sangue d'Italia
e il sangue Polacco
bevé col Cosacco, (15)
ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte!
Siam pronti alla morte;
Italia chiamò.


SPIEGAZIONE DELL’INNO

  1. Va ricordato che i versi di Mameli, risalgono al 1847 e furono ispirati dai moti Genovesi per le riforme. Non era ancora stata combattuta la prima guerra d’indipendenza e l’unità d’Italia era di là da venire. Italiani, quindi era inteso come fratelli di una stessa Patria. Nel manoscritto originario, le parole: “Fratelli d’Italia” non compaiono. Era scritto invece: “Evviva l’Italia”.
  2. La cultura di Mameli é classica ed é forte in lui il richiamo alla romanità. L’Italia, ormai pronta alla guerra contro l’Austria, si cinge la testa (in senso figurato), con l’elmo di Scipio (detto poi l’Africano), l’eroico Generale romano Publio Cornelio Scipione, che nella battaglia di Zama (l’attuale Algeria), nel 202 a.C., sconfisse il Generale Cartaginese Annibale, riscattando così la precedente battaglia di Canne, a conclusione della seconda guerra punica. Dopo la disfatta Cartaginese, Annibale sottoscrisse il trattato di pace con Roma, per evitare la totale distruzione del suo esercito.
  3. Qui il poeta si riferisce all’uso antico, di tagliare le chiome alle schiave, per distinguerle dalle donne libere, che portavano invece i capelli lunghi. Dunque la vittoria deve porgere la chioma perché le venga tagliata, quale schiava di Roma, sempre vittoriosa.
  4. La coorte (cohors) non ha nulla a che vedere con il cortile, la corte, che conosciamo noi. Era un’unità da combattimento dell’esercito romano, la decima parte di una legione.
  5. Qui a tutti tremano le vene dei polsi. Altri fanno gli scongiuri, ma vale la pena di ricordare che l’autore fu coerente con le sue parole.
  6. Mameli sottolinea il fatto che l’Italia all’epoca, (1848) era ancora divisa in sette Stati.
  7. A dire la verità, in questi versi si potrebbe intravedere un sentimento democristiano ante litteram. Ma é nota la religiosità di Mazzini, spesso deriso da Marx, con il nomignolo di “Teopompo”.
  8. Il Verso: “Uniti per Dio” in alcune versioni appare come “Uniti con Dio”, per non essere confusa con l’espressione quasi blasfema“per Dio”, ancora oggi in uso nel linguaggio popolare italiano. Nel poema però il verso é derivato da un francesismo, che significava“da Dio” oppure “attraverso Dio”.
  9. Il riferimento a Legnano riguarda l’unione dei Comuni dell’Italia del nord, che uniti in lega e guidati da Alberto da Giussano, sconfissero Federico Barbarossa nella battaglia avvenuta, nella città lombarda, il 29 maggio 1176.
  10. In questa strofa, Mameli ripercorre sei secoli di lotta contro il dominio straniero, fino all’estrema difesa della Repubblica di Firenze, assediata dall’esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il Commissario Generale di guerra della repubblica fiorentina (ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano). Il 2 agosto 1530, esattamente dieci giorni prima della capitolazione di Firenze, Francesco Ferrucci fu protagonista di atti di eroismo a Gravinana, dove erano state sconfitte le truppe francesi del Principe d’Orange, guidate dal capitano dell’esercito imperiale Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo dello straniero. Ferrucci venne ferito, quindi catturato, ma prima di essere ucciso dallo stesso Maramaldo, avrebbe pronunciato le parole d’infamia divenute celebri: “Maramaldo, tu uccidi un uomo morto”.
  11. I Fascisti non c’entrano con questa affermazione, in quanto“Balilla” é il soprannome di Giovan Battista Perasso, il ragazzo quattordicenne genovese, che il 5 dicembre 1746, tirando una sassata contro gli occupanti Austriaci, diede inizio alla rivolta popolare dei suoi concittadini, contro gli Austro-Piemontesi.

Fratelli d'Italia…
Dobbiamo alla città di Genova il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli. Scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro.
Il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l'Austria. L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani, e non alla Marcia Reale, il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese. Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l'Inno di Mameli divenisse l'inno nazionale della repubblica italiana.

Come nacque l'inno
La testimonianza più nota è quella resa, seppure molti anni più tardi, da Carlo Alberto Barrili, patriota e poeta, amico e biografo di Mameli. Siamo a Torino: "Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: To' gli disse; te lo manda Goffredo. Il Novaro apre il foglietto, legge e si commuove. Gli chiedono tutti cos'è; gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, sollevando ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo. Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'una sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte. Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia."

Il poeta
Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827. Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, l'anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone il Canto degli Italiani. D'ora in poi, la vita del poeta-soldato sarà dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunge Milano insorta, per poi combattere gli Austriaci sul Mincio, col grado di Capitano dei Bersaglieri. Dopo l'armistizio Salasco, torna a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, viene proclamata la repubblica. Nonostante la febbre, è sempre in prima linea, nella difesa della città assediata dai Francesi: il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra, che dovrà essere amputata per la sopraggiunta cancrena. Muore d'infezione il 6 luglio, alle sette e mezza del mattino, a soli ventidue anni.
Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

Il musicista
Michele Novaro nacque a Genova il 23 ottobre 1818, dove studiò composizione e canto. Nel 1847 è a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano.
Convinto liberale, offrì alla causa dell'indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.
Di indole modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l'Unità. Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno. Morì povero, il 21 ottobre 1885 e lo scorcio della sua vita fu segnato da difficoltà finanziarie e da problemi di salute. Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli venne eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno (GE), dove oggi riposa vicino alla tomba di Mazzini.

Un po’ di storia
E’ ovviamente il testo adottato in tempi di repubblica, dunque emendato, e vedremo perché. Ora ci interessa altro. Si dice che l’inno di Mameli sia brutto. E si fa il confronto, in particolare con la Marsigliese. Intanto, andrebbe ricordato che Mameli “Andò a morire” da eroe rivoluzionario, mentre Rouget de Lisle, autore del testo francese, morì borghesemente nel suo letto: circostanza, questa, sulla quale i transalpini preferiscono sorvolare. E in questo caso, non é che ci sia molta differenza, fra “l’elmo di Scipio / s’é cinta la testa” e “un sangue impuro / abbeveri i nostri solchi”; per non parlare del britannico “Dio salvi la regina / Dio salvi la nostra graziosa maestà!”.
Ma veniamo al tema musicale. Sulla presunta superiorità originale della Marsigliese, c’é chi ha da ridire: de Lisle, secondo tutti i musicologi, doveva avere ben radicato in testa un concerto di Mozart, quando compose il canto di guerra per i volontari marsigliesi dell’armata del Reno. E un altro inno nazionale, l’israeliano Hatikvà, poggia su un plagio abbastanza percepibile, quello della Vltava, di Smentana. E se andiamo al testo: “Od lo avda tikvatenu”, che tradotto in italiano, suona: “la nostra speranza non é ancora perduta”; per chi ha presente l’origine polacca di gran parte dell’ebraismo mondiale, e per chi conosce l’inno polacco Marcia di Dombrowski, non può destare perplessità. Nell’inno polacco, infatti, si legge: “Jeszcze Polska nie zginela”, (la Polonia non é ancora perduta). Fra l’altro, la Marcia, ha una sorta di scambio di cortesie con l’Italia. La strofa del nostro inno (quella emendata), dice: “Son giunghi che piegano / le spade vendute / già l’aquila d’Austria / le penne ha perdute / il sangue d’Italia / e quello Polacco / bevé col Cosacco / ma il cor le bruciò”. Ed ecco come attacca l’inno polacco: “Marcia marcia Dombrowski / dall’Italia alla Polonia / la Polonia non é ancora perduta”. L’inno polacco parla dell’Italia, quello italiano della Polonia. Dombrowski, generale di una regione polacca, che combatteva sotto le bandiere di Napoleone, é l’eroe della nazione più cattolica d’Europa, e nello stesso tempo uno dei condottieri “Giacobini” tacciabili di “genocidi”, secondo la recente polemica sulle “insorgenze” cattoliche del 1779. E “genocida del sud”, come garibaldino, sarebbe tacciabile dall’identica fonte, anche l’altro grande eroe nazionale polacco dell’800: l’italiano Francesco Nullo, morto combattendo durante l’insurrezione polacca del 1863.
Gli israeliani, vorrebbero cambiare il loro inno lacrimoso, che risale al 1878, magari facendo ricorso al coro del Nabucco, al Va’ pensiero, che di ebrei parla, e che in Italia é stato proposto come inno anti-Mameli, oltre che scippato dalla Lega. Gli spagnoli, invece, problemi di questo tipo, non li hanno: il loro Himno Real é senza testo scritto, ha soltanto la musica, che fu composta come omaggio agli eredi dei “Re cattolicissimi” di Castiglia e di Aragona, dal prussiano luterano e volterriano Federico II.
Altri problemi hanno i tedeschi. Deutschland uber alles, su testo del loro Risorgimento, é stato adattato su musica di Haydn, così come l’inno austriaco fu adattato su musica di Mozart e quello americano su un vecchio inno inglese settecentesco, intitolato Anacreonte in cielo.
Ma chi taccia l’inno di Mameli di essere brutto, ha mai letto il testo dell’inno americano? Si recita:”Oh! Potete vedere, nei fulgori mattutini / colei che così fieramente salutammo negli ultimi bagliori del crepuscolo / le cui larghe strisce e luccicanti stelle avevano attraversato la perigliosa pugna / sui nostri bastioni guardammo così gagliardamente sventolare”.
Ma torniamo all’inno tedesco: “Germania Germania sopra tutto / sopra ogni cosa al mondo / dalla Mosa al Memel / dall’Adige al Belt”: e dal momento che, per riconquistare i “confini naturali” indicati nella sua prima strofa e persi dalla Germania guglielmina della prima guerra mondiale, Hitler ne aveva scatenato una seconda, la repubblica federale si mette al sicuro, ora, facendo partire le esecuzioni della seconda strofa.
IL Giappone, per far dimenticare il passato fino al 1945, aveva messo sotto naftalina inno e bandiera. Solo da poco, col revisionismo storico, si respira a Tokyo, la Dieta ha “riconsacrato” questi emblemi nazionali. E va detto che nel mondo rutilante e spesso militaresco, degli inni nazionali, il testo medioevale di quello dedicato al Mikado, é probabilmente uno dei più poetici, nel gentile e tutto orientale tratteggio della natura in cui si risolve: “Che il tuo regno diecimila anni si prolunghi / governa Signore, fino a che le pietre del presente / saranno fuse dal tempo nelle rocce giganti / sui cui venerabili fianchi s’allunga il muschio”. E infatti: chi ha prescritto che l’inno nazionale debba parlare di guerra, Jomo Keniatta, Padre della Patria del Kenya, dopo l’indipendenza indisse un concorso e scelse come inno un’antica ninna nanna. Il canto del mattino dell’India é su testo del premio Nobel per la letteratura Rabindranat Tagore. E ci sono stati e continueranno ad esserci, incidenti di percorso: gli eredi di Tagore, avevano venduto i diritti dell’inno a un cantante folk americano, circostanza che ha causato molte noie legali. Così nel 1844, quando in Messico di indisse un concorso per l’inno nazionale: dal momento che il premio non fu mai pagato al vincitore, gli eredi vendettero il copyright a una casa editrice statunitense, alla quale il Messico deve pagare tuttora i diritti ogni volta che l’inno viene eseguito. E cosa declama quest’inno? “Messicani, al grido di guerra / un acciar apprestate e l’arcion / e rimbombi nel cuore la terra / al sonoro ruggir del cannon”. C’é rima anche nella traduzione italiana. Vogliamo ancora dire male dell’Inno italiano?

QUALCHE NOTA STONATA
Niente da fare. Neppure con la sedicesima legislatura l'Italia ha un inno ufficiale: quello di Goffredo Mameli era e rimane provvisorio. Adottato il 12 ottobre 1946 (quattro mesi dopo la partenza del re Umberto II per l'esilio), come semplice inno militare in sostituzione della Marcia Reale Sabauda, da un provvedimento d'urgenza del governo di Alcide De Gasperi, l'inno era rimasto per circa mezzo secolo di storia repubblicana, senza un ruolo e una definizione istituzionale precisi. Tanto che nel settembre 2002 alcuni Deputati della maggioranza, fra i quali Agostino Ghiglia (AN), presentarono una proposta di legge di un solo articolo: “La Repubblica italiana riconosce l'Inno di Mameli quale Inno ufficiale della Nazione”. La formulazione non era felice: l'Inno non è “della Nazione”, bensì dello Stato. Ma non era difficile rimediare.
I proponenti pensavano di avere il vento in poppa. Dall'elezione alla presidenza della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi stava rivalutando il Risorgimento e i simboli dell'unità e dello Stato: Altare della Patria, Tricolore e, appunto, l'Inno. Il 10 gennaio 2003, Ghiglia presentò alla stampa lo stringato disegno di legge, sicuro di andare subito in porto con decisione bipartisan e benedizione dal Colle. Invece no. Solo il 17 novembre 2005 il forzista Luciano Falcier lo illustrò alla commissione Affari Costituzionali del Senato. Poi calma piatta. La discussione del Disegno di Legge comparve nell'Ordine del Giorno del Senato, alla vigilia dello scioglimento delle Camere, il 10 febbraio. Ma altri provvedimenti erano ritenuti più urgenti e l'Inno di Mameli è rimasto al palo. Con una serie di conseguenze quantomeno curiose, a partire dal mondo sportivo; per esempio, gli azzurri premiati alle Olimpiadi di Torino, non solo non sapevano di cantare, sul podio, un inno che è rimasto provvisorio, ma ignoravano pure che, con ogni probabilità, l'autore non è affatto quello che avevano imparato a conoscere sui banchi di scuola.
Tradizione vuole che l'Inno sia stato scritto nell'autunno 1847 da Goffredo Mameli. Ma chi era costui? Di famiglia nobile, nacque a Genova il 5 settembre 1827. Il nonno, il cagliaritano “don” Antonio Vincenzo, nato nel Palazzo di Corte, il 7 maggio 1784, venne riconosciuto Cavaliere e nobile da Vittorio Amedeo III, Re di Sardegna. Intrapresi gli studi nel collegio genovese dei Padri Scolopi (le Scuole Pie, fondate dallo spagnolo San Giuseppe Calasanzio), Goffredo progredì regolarmente sino a 15 anni. Il 29 giugno 1843 venne alle mani con il diciottenne Giuseppe Lullin e fu sospeso dagli studi. Li riprese il 15 novembre 1845. Nell'agosto 1846 fu ammesso al primo anno di legge.
E qui arriviamo al primo fatto interessante. Cioè a un particolare stranamente taciuto dai suoi biografi, inclusi Anton Giulio Barrili, che per primo ne pubblicò le poesie, Giosue Carducci e Cesare Abba: a metà settembre 1846, Goffredo fu condotto da padre Raffaele Ameri al Collegio Scolopico di Carcare, presso Cairo Montenotte (Savona). Carcare ebbe allievi illustri, dall'economista Pietro Sbarbaro a Luigi Einaudi, Presidente della Repubblica. Si ambientò bene, come padre Ameri scrisse al confratello Muraglia. E Goffredo stesso il 9 settembre 1846 lo confermò a Giuseppe Canale. Proprio a Carcare, Mameli frequentò padre Atanasio Canata (1811-1867), un intellettuale di grande spessore culturale sul quale vale la pena di spendere due parole.
Nativo di Lerici (La Spezia), Canata aveva temperamento focoso. Autore di prose e tragedie, scrisse poesie, nel 1889 raccolte in due volumi. I suoi versi grondavano cristianesimo liberale e amor di Patria. Ispirato da Vincenzo Gioberti, Canata scommetteva sull'indipendenza e l'unione degli italiani. Infatti nei suoi componimenti ricorrono tutti i materiali che troveremo presenti nel canto nazionale (attribuito a Mameli) e che fa riferimento a fatti del 1846: la sanguinosa repressione austriaca dei polacchi in Galizia e il festeggiamento di Balilla a Genova (settembre 1846).
Ma torniamo a Goffredo. Il 10 novembre 1847 il baldo studente mandò il canto nazionale all'amico compositore Michele Novaro, che l'ebbe mentre era a Torino, in casa del democratico Lorenzo Valerio. Con il cuore in tumulto Novaro si gettò a musicarlo. Corse a casa, scrisse le note di quello che dovrebbe quindi essere l'Inno di Novaro. Concitato, versò la lucerna, danneggiando il foglio dell'amico, perduto per sempre.
Del canto abbiamo un paio di versioni. Osservate senza paraocchi apologetici, risultano copie di un originale non pervenuto. La prima, conservata al Museo del Risorgimento di Genova, inizia: “Evviva l'Italia, l'Italia s'è desta...”. Nella seconda copia (Museo del Risorgimento di Torino) si legge invece a sinistra “Fratelli d'Italia...” e, a destra, nella stessa pagina, “Evviva l'Italia, dal sonno s'è desta...”. Fra le prime edizioni a stampa (Modena, 1848), quella della tipografia Andrea Rossi precisa: “Parole di Mammelli, musica del Maestro Novella (Piemontesi)”.
In attesa della visita di leva, da Novi Ligure il 15 ottobre 1847, cioè proprio quando avrebbe scritto il canto nazionale, Goffredo spiegò alla madre il suo ideale di vita: “Mangio per quattro, dormo molto, non faccio nulla, penso meno”. Rifiutò l'arruolamento e si fece surrogare. Poi partì volontario, accorse a Roma. Nella difesa della repubblica il 3 giugno 1849 fu colpito da un commilitone alla gamba sinistra (mai chiarito se con baionetta o proiettile). La ferita suppurò. Giuseppe Mazzini benedicente, l'arto venne amputato. Il 4 luglio i francesi entrarono in Roma. Il 6 Goffredo morì. Padre Ameri gl'impartì il viatico e ne curò la sepoltura. Il Risorgimento era e rimaneva cristiano.
Ma è a questo punto che dobbiamo tornare a padre Canata. A leggere infatti una sua opera importante, Inferno, Purgatorio e Paradiso d'Italia, ci si accorge che il poeta lamenta un duplice disinganno: la rottura dell'unità d'azione di papisti e patrioti e il furto di una poesia. Parlando di sé in terza persona scrisse: “A destar quell'alme imbelli / meditò robusto un canto; / ma venali menestrelli / si rapian dell'arpe il vanto: / sulla sorte dei fratelli / non profuse allor che pianto, / e aspettando nel suo cuore / si rinchiuse il pio cantore”. Il testo è chiaro: Canata accusa “venali menestrelli” di avergli rubato il testo del canto. Con chi ce l'ha?
Quasi certamente con Mameli. Che il professore non accusa apertamente del furto per pietà cristiana e per rendere omaggio al conforto religioso chiesto dal giovane nel momento della morte, visto che il patriota veniva dipinto come massone anticlericale. Del resto, dovette pensare Canata, l'inno parla da sé. Esprime un pensiero adulto: “Uniamoci, amiamoci; / l'unione e l'amore / rivelano ai popoli/ le vie del Signore”. Parole di pedagogo. Nella versione conservata alla Società economica di Chiavari, il canto inizia “Oh Figli d'Italia...”. Non è voce di un ventenne scapestrato e sgrammaticato com'era Mameli. La vera storia dell'Inno resta dunque da scrivere.

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